in collaborazione con Institut Catholique de la Méditerranée di Marsiglia e Gruppo di ricerca Il Mediterraneo come luogo teologico |
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Appello per un Mediterraneo di paceSi è svolto a Molfetta nei giorni 19 e 20 giugno un laboratorio che ha visto insieme teologi e pastori nel confronto per l’elaborazione di un documento che esprima programmaticamente le linee di una teologia dal Mediterraneo: i suoi tratti peculiari, il metodo, il contributo che da essa può venire alle chiese mediterranee e alla costruzione di un Mediterraneo di pace. Nell’ambito di questa riflessione è emersa con forza l’idea di una teologia non neutrale, che sappia contribuire a leggere quanto accade con spirito critico e profetico alla luce del Vangelo. È nato così l’Appello per un Mediterraneo di pace sottoscritto dai teologi e pastori presenti.
Il Mediterraneo grembo e promessa di una fraternità possibile
«Non dimenticate l’ospitalità;
Avete inteso che fu detto che questo mare è un mare infido, ma non è così. Dinanzi all’ennesima strage che si è consumata nelle acque del Mediterraneo, come teologi e teologhe provenienti da diverse sponde del Mediterraneo, non possiamo tacere. Ci sentiamo provocati a prendere posizione rispetto a questo racconto di morti, di respingimenti, di tragiche disuguaglianze. Siamo convinti che una narrazione diversa del Mediterraneo debba essere cercata. Questo Mediterraneo, i suoi volti, le sue storie, le grida che salgono da questo mare, ci interpellano. La teologia si pone con uno sguardo di speranza, che non si allontana dalla tomba, dalle tombe che questo mare rappresenta, ma prova a interpretarle: tra memoria e profezia. Questo significa, per noi, metterci in ascolto. In ascolto di Dio, fino a sentire con Lui il grido di questi popoli; in ascolto del grido di questi popoli fino a respirarvi la volontà a cui Dio ci chiama, come credenti e come esseri umani. Come ci ha indicato il Concilio Vaticano II, il genere umano vive oggi un periodo nuovo della sua storia: una vera trasformazione socioculturale, profonde mutazioni, interrogativi che toccano il senso dell’umano accanto ad aspirazioni sempre più universali e che chiedono al pensiero credente di scrutare in tali vicende i segni dei tempi interpretandoli alla luce del Vangelo (cf GS).
Sentiamo l’urgenza di una teologia capace di accogliere l’istanza profetica racchiusa nel grido di dolore e nelle richieste di giustizia che giungono dai tanti naufraghi della storia: da coloro che lasciano i loro paesi impoveriti e devastati dai conflitti alimentati dagli interessi dei potenti del mondo; da quanti sono sfruttati e umiliati nella loro dignità; da quelli che fuggono dalla fame prodotta anche dai cambiamenti climatici; ma anche l’istanza racchiusa nel grido della terra e di un mare sempre più stravolti da una economia predatoria. Sappiamo di dover partire da questo ascolto: dal pianto e dal silenzio delle storie dei sommersi e non salvati, dalle voci di chi accoglie o rifiuta in questo perdersi delle frontiere anch’esse in cammino. Vogliamo porci dinanzi a tutto questo con lo stile di una teologia umile che non dà risposte preconfezionate, ma si lascia abitare dalle provocazioni di questo mare.
Ed è proprio la categoria del naufragio che può aiutarci a reinterpretare il Mediterraneo, a dare vita a nuove narrazioni. Con i tanti che vedono naufragare la loro speranza di una vita migliore, il loro diritto alla libertà, naufraghiamo anche noi e la nostra umanità. Siamo dentro un naufragio di civiltà. Tutti noi siamo i naufraghi (tutti e non solo alcuni) e questo già spezza le frontiere che vorremmo irrigidire. Il Mediterraneo è luogo di naufragi. Ma nella speranza scampata alla disperazione dei migranti che atterrano sulle nostre coste, nei loro occhi che cercano e chiedono salvezza e futuro, proprio lì e già li possiamo scorgere i segni del Regno che anche noi cerchiamo. La speranza arriva dall’altro, quell’altro che crediamo di dover essere noi ad accogliere, e che invece forse ci sta salvando. La profezia che sale dai tanti drammi del Mediterraneo chiede che si ritrovi l’identità più profonda di questo mare dai confini mobili, impossibile da racchiudere in una definizione, in una prospettiva culturale, che non può essere di pochi ma è dei tanti che su di esso si affacciano, mare “nostro” in tutte le lingue dei popoli del Mediterraneo. Spazio di interconnessioni, incrocio di rotte, il Mediterraneo testimonia la fecondità della contaminazione che è generativa delle specificità culturali. Non esiste una identità culturale pura: è questo che il Mediterraneo racconta.
L’accoglienza dell’altro è allora un atto di giustizia e di riconoscimento di ciò che siamo in questo mare nostro, mare del meticciato. L’istanza profetica è nell’ospitalità che si fa paradigma culturale e di pensiero, criterio di vita e di azione sociale. Riconoscere l’altro, le nostre differenze, le nostre contaminazioni non può essere considerata una scelta opzionale. In questo riconoscimento c’è la nostra umanità, ma anche la stessa dinamica della Rivelazione: Dio è dialogo e il dialogo è luogo di Dio. Sentiamo di dover chiedere perdono per le chiusure giustificate in nome della fede, per i conflitti sostenuti da ragioni religiose, per la mancanza di coraggio nella denuncia dei mali provocati da sistemi ideologici e di potere. Vorremmo lasciarci istruire, piuttosto, dai vissuti di tante comunità che si sono lasciate rinnovare e convertire dall’accoglienza dello straniero, che hanno ritrovato il senso vivo della loro fede facendosi accoglienti della fede dell’altro. La teologia ha bisogno di ripartire dai vissuti, perché è lì che possiamo riconoscere l’azione rivelatrice e innovatrice dello Spirito: «ecco io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Isaia 43,19; cf Ap 21,5). Nei naufragi come nell’accoglienza, il Mediterraneo racconta la promessa di una fraternità possibile. Da tomba può tornare ad essere grembo, grembo di speranza. È la forza del mistero pasquale che chiede di trasformarsi in responsabilità per la storia. Facoltà Teologica Pugliese |
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